di Riccardo Bramante
In una scena del film di Sorrentino “La grande bellezza” si vede una giovane donna nuda che, avanti ad un folto numero si spettatori, dopo una breve rincorsa va a battere volontariamente la testa contro uno dei piloni dell’antico acquedotto romano che attraversa la Via Appia rimanendo a terra svenuta; intervistata successivamente da Jep Gambardella (il protagonista del film) che la interroga sul significato della sua “performance” la donna dà risposte confuse e spiazzanti.
E’ la stessa sensazione che si prova vedendo la grande retrospettiva in corso nelle sale di Palazzo Strozzi a Firenze dedicata a Marina Abramovic, la contestata, discussa ed amata “nonna della performance art”, come lei stessa si definisce.
Nata a Belgrado nel 1946 l’artista serba frequenta la locale Accademia di Belle Arti per poi trasferirsi in Olanda, ad Amsterdam, dove incontra Ulay (pseudonimo di Frank Uwe Laysiepen) con cui si lega affettivamente e professionalmente realizzando insieme celebri e contestate “performances” come “Imponderabilia” nel 1977 presso la Galleria d’Arte a Bologna in cui i due, completamente nudi, sono in piedi all’ingresso uno di fronte all’altro ma molto vicini per cui i visitatori per entrare dovevano passare necessariamente sfiorando i loro corpi; ovviamente la “performance” venne interrotta presto dalla polizia.
Decisamente più intensa e significativa fu la performance “Balkan Baroque” del 1997 in cui la Abramovic per sei ore al giorno, per quattro giorni, rimase intenta a disossare brandelli di carne da ossa di bovino accumulate nei sotterranei del Padiglione Montenegro alla Biennale di Venezia come metafora della guerra civile e della pulizia etnica che allora insanguinava la ex Yugoslavia; per tale esibizione vinse quell’anno il “Leon d’Oro”.
Si susseguono, poi, numerose altre performances in cui vengono esplorate le interazioni tra l’artista ed il pubblico ed il contrasto tra i limiti del corpo e le potenzialità della mente avendo come punto base il principio che l’arte nasce soprattutto dalla sofferenza e che bisogna affrontare le proprie paure relazionandole al proprio corpo anche a costo di farsi del male.
Anche la fine del grande amore con Ulay diviene per la Abramovic l’occasione per una romantica performance nel 1988: entrambi partendo l’uno dall’estremo sud l’altro dal nord della Grande Muraglia cinese si incontrano a metà strada per dirsi addio. Non meno commovente è stato peraltro il loro incontro dopo oltre venti anni quando nel 2010, nel corso di una performance lunga due mesi che la Abramovic teneva al MoMa di New York seduta avanti ad una lunga fila di ammiratori che potevano sedere per un minuto di fronte a lei senza però parlare o fare alcun gesto, apparve a sorpresa tra i visitatori stessi Ulay; fu l’unico momento in cui la Abramovic perse la sua proverbiale impassibilità e lacrime spuntarono dai suoi occhi.
Tutto questo ed altro ancora è raccontato nella mostra di Palazzo Strozzi attraverso più di cento video di performances ed installazioni che ripercorrono, in una grande retrospettiva, la carriera dell’artista anche con la riproposizione di alcune delle sue più celebri esibizioni interpretate da attori e coreografi professionisti appositamente selezionati.
La mostra sarà aperta al pubblico fino al 20 gennaio 2019.
Articolo di Riccardo Bramante