Chi si trova a passare per la Piazza Campo de’ Fiori a Roma, non può non notare la statua che si innalza, quasi minacciosa, al centro della piazza stessa; è il monumento a Giordano Bruno eretto nello stesso luogo dove, si dice, venne arso vivo nel 1600 per volere della Chiesa.
Strano destino quello di Giordano Bruno: nato nel 1548 a Nola, manifestò fin da giovane un carattere irrequieto, divenendo dapprima frate domenicano non tanto per vocazione quanto per sfuggire alla povertà allora molto diffusa nella sua Campania per poi iniziare un vero e proprio “pellegrinaggio” attraverso l’Europa per sfuggire dalle accuse di eresia mossegli dal Papato. Fu in Svizzera, in Francia, in Inghilterra e in Germania dove trovò il modo di entrare in conflitto con tutte le forme di religione in quei luoghi professati, la calvinista a Ginevra, l’anglicana a Londra, la luterana in Germania perché comunque contrarie alle sue
convinzioni filosofiche e alla libertà di professarle.
Raggiunto a Venezia dalla Santa Inquisizione, fu arrestato e trasferito a Roma nel 1593 dove venne, appunto, accusato formalmente di eresia per i dubbi manifestati sulla Trinità, sulla divinità di Cristo e sulla transustanziazione nonché , in definitiva, di voler sostituire, in luogo della religione cattolica, la religione della ragione come unica ed universale in un sistema di mondi infiniti. Rifiutatosi di abiurare alle sue tesi, fu condannato al rogo non senza aver dato prima, ancora una volta, un segno della propria fermezza pronunciando verso i suoi accusatori la frase “Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza contro di me che io nell’ascoltarla”.
Questa sua fama di uomo che non rinunciava alle proprie idee neanche difronte alla morte lo seguì anche nei secoli successivi se è vero che la sua statua fu eretta solo nel 1889 dall’anticlericale Primo Ministro del Regno d’Italia, Francesco Crispi, dopo che una prima statua eretta nel 1849 durante l’effimera Repubblica Romana di Mazzini , Armellini e Saffi fu abbattuta durante il pontificato di Pio IX.
Ben diverso il destino di Galileo Galilei: nato a Pisa nel 1564 fu scienziato, scrittore, poeta, ma anche egli entrò in sospetto della Chiesa in quanto sostenitore del sistema eliocentrico, enunciato da Copernico, che poneva il Sole al centro dell’universo ed i pianeti che gli ruotavano intorno , in contrasto, perciò, con quanto affermato dalle Sacre Scritture e dai Vangeli. . Nel suo libro “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” (copernicano e tolemaico), Galileo cercò di non impegnarsi esplicitamente per una delle due teorie ma il libro fu proibito egualmente dalla Chiesa. ( E’ interessante notare in proposito che il principale accusatore di Galileo fu il Cardinale Bellarmino, lo stesso che alcuni decenni prima aveva condotto il processo a Giordano Bruno). Chiamato a Roma nel 1633 processato e minacciato di tortura, memore forse del destino che aveva incontrato pochi decenni prima Giordano Bruno, fu costretto ad abiurare pubblicamente alle sue teorie “con cuore sincero e fede non finta” ma nello stesso tempo mormorando sottovoce “Eppur si muove”, riferendosi alla Terra che ruota intorno al Sole.
Questa condanna segnò, in definitiva, la sconfitta della metodologia scientifica fondata sull’osservazione dei fatti contro la scienza tradizionale che enunciava esperienze senza averle mai fatte né comprovate. La condanna di Galileo si ridusse ad una sorta di prigione a vita da scontare nella sua villa ad Arcetri, vicino Firenze, dove morì nel 1642 non senza aver prima continuato nelle sue ricerche astronomiche che lo portarono a scoprire nuovi pianeti anche attraverso l’uso del cannocchiale da lui perfezionato. Anche la sua memoria, come quella di Giordano Bruno, trovo’ il giusto riconoscimento solo molto tempo dopo, quando, nel 1737, fu onorato con un monumento funebre nella Chiesa di S. Croce a Firenze, dove riposano alcuni dei grandi geni italiani.
Quali conclusioni trarre da questi due diversi atteggiamenti assunti da Bruno e Galilei avanti alla possibile condanna a morte? Il primo non rinunciò alle sue teorie filosofiche che erano, comunque, verità soggettive e quindi non dimostrabili, mentre il secondo abiurò verità matematiche inconfutabili e dimostrate nei fatti.
Nessuno dei due è, però, da condannare perché sono la dimostrazione dei due aspetti propri dell’essere umano: la fermezza nelle proprie idee e, di converso, la capacità di adattarsi alle situazioni anche non condivise al fine di evitare un male peggiore. Resta il fatto che almeno una circostanza li avvicina: nel 1992 Papa Giovanni Paolo II (guarda caso un Papa non italiano) riconobbe ufficialmente gli errori allora commessi dalla Chiesa nei loro confronti e ne cancellò la condanna.
Articolo di Riccardo Bramante