di Riccardo Bramante
Giusto nell’aprile di cento anni fa, nel 1920, in una piccola isoletta greca del Mar Egeo, ritornò alla luce uno di quelli che vengono considerati i capolavori della scultura ellenistica: la Venere di Milo.
Fu un ritrovamento del tutto casuale, opera di un contadino che lavorando sul proprio campo vide riemergere grandi blocchi di marmo che riportati in superficie e ricomposti alla meglio formarono il nucleo di una gigantesca statua alta oltre due metri di affascinante bellezza.
Benchè priva delle due braccia e del piede sinistro (mai ritrovati nonostante le successive ricerche archeologiche), l’opera venne subito riconosciuta di grande valore e l’ufficiale della Marina francese Olivier Voutier, in collaborazione con l’Ambasciatore di Francia in Turchia, riuscì ad acquistarla per farne dono al Re Luigi XVIII che nel 1921 la collocò al Louvre dove ancora si trova, oggetto di ammirazione al pari della Gioconda.
Data la grande bellezza della statua, che si differenziava molto dalle altre Veneri dello stesso periodo ellenistico, si era pensato in un primo momento che dovesse essere opera di Prassitele, il più famoso scultore dell’epoca, ma da una iscrizione decifrata su una base di marmo eguale a quello della statua, trovata nelle vicinanze, sembra che debba invece attribuirsi ad Alessandro di Antiochia, datandola perciò intorno all’anno 130 a.C.
Esaminando la postura , in cui la dea sembra tendere il braccio per offrire qualcosa, la maggior parte degli studiosi ritiene volesse rappresentare la “Venus victrix”, cioè Venere che porge una mela d’oro a Paride come ringraziamento per averla eletta la più bella in una inedita gara tra lei, Era e Atena. Peraltro, sembra contraddire questa interpretazione l’espressione del volto della dea, severo ed assorto in pensieri che trascendono il semplice episodio ma, spogliati dal profano limite temporale, sembrano ampliarsi in una visione di misterioso ideale di bellezza.
Il panneggio bagnato di cui è in parte rivestita, molto simile a quello della poco più antica Nike di Samotracia, e la grande attenzione ai capelli legati ma leggermente ondulati creano un affascinante gioco di luci e chiaroscuri che danno alla Venere un tocco di estrema sensualità che già da allora colpì gli artisti dell’epoca facendo dire ad Auguste Rodin “Quest’opera è uno dei più alti momenti dell’ispirazione antica; è la voluttà regolata dalla misura, è la gioia di vivere moderata dalla ragione”.