Se ci viene chiesto di citare qualcuno dei più noti scritti di autori europei o americani immediatamente ci tornano in mente una delle tante opere dei vari Shakespeare, Dante, Goethe, Flaubert e tanti altri; ma se la stessa domanda ci viene posta per conoscere quale sia il più noto scritto cinese (a parte il Libretto rosso di Mao) credo che difficilmente si possa avere una risposta immediata.
Ebbene, il romanzo cinese più famoso è considerato il “Chin P’ing Mei”, ovvero “Fiori di susino nel vaso d’oro”, opera composta verso la fine del periodo Ming, cioè intorno al 1600, da un autore non ben identificato (probabilmente il poeta Wang Shih-chen) che, attraverso la storia di un uomo, ci presenta uno spaccato della vita cinese nel XII secolo con le sue tradizioni, spiriti di casta, cerimonie e pregiudizi.
La trama del libro è costituita dal racconto della vita di un ricco uomo di nome Hsi-men Ch’ing che si fa strada nel suo mondo attraverso la corruzione e gli intrighi e mantiene in casa, oltre la moglie, ben cinque concubine, una delle quali, però, alla fine lo uccide somministrandogli una dose eccessiva di afrodisiaco, mentre la vedova fa entrare il figlio in un convento buddista come espiazione dei peccati del padre.
Al di là della trama, in effetti alquanto banale, il romanzo assume importanza perché, con uno stile arguto e curato, ci offre un panorama estremamente dettagliato dei costumi della società cinese benestante di allora.
In particolare, ciò che colpisce è l’influenza che la donna cinese esercitava sulla condotta e sugli affari del marito anche se non poteva comparire in pubblico nei ricevimenti o negli incontri di lavoro; infatti, portarsi dietro la moglie era considerato sconveniente e in tali occasioni si ricorreva alle cortigiane che però, come d’altra parte avveniva nell’antica Atene o nella Venezia settecentesca, non erano semplici donne di piacere ma signore argute ed istruite estremamente ricercate dalle classi alte del Paese.
Ovviamente nel libro ricorrono spesso scene erotiche raccontate, però, con un tale candore e distacco che a noi occidentali di oggi fanno sorridere e non suscitano torbide emozioni, tanto è vero che il libro è stato pubblicato da editori rispettabilissimi. In Cina, invece, l’opera circolò prima in forma manoscritta e dopo una prima edizione a stampa nel 1610, fu proibita dopo alterne vicende nel 1789 dall’imperatore.
Tuttavia, nonostante le vicissitudini attraversate, può ben dirsi che questo libro, a parte il “Milione” di Marco Polo, è quello che ci ha fatto conoscere tanto degli usi e costumi della Cina di allora.
Articolo di Riccardo Bramante