Di “Saffosonie” si è parlato tanto, di questo modo di rendere suono le liriche di Saffo secondo le traduzione di un maestro come Salvatore Quasimodo. Un disco impegnato, evocativo, dove l’immaginazione del suono costruito anche grazie alla collaborazione di Flavio Minardo e con le orchestrazioni a cura di Dario Toffolon, costruiscono un mondo surreale, antico, lontano e sospeso. Si è detto tanto e tanto si è manifestato anche dentro le direzioni teatrali… ma ora facciamo un passo a latere e chiediamo ad Anna Jencek in persona qualcosa che esuli dalla solita biografia di routine. Le abbiamo dato carta bianca…
«La mia educazione poliedrica, fin dall’infanzia, mi porta ad esprimermi in maniera naturalmente interdisciplinare. Dai 5 ai 10 anni, com’era d’uso nelle famiglie illuminate di origine austro-ungarica, studio il pianoforte, con la maestra Maria Luisa Casali. Anche un bambino speciale seguiva le sue lezioni, Maurizio Pollini.
La frequentazione musicale, comunque era quotidiana: mio padre Wladimiro, malgrado avesse poi scelto di intraprendere la carriera bancaria, era in gioventù musicista jazz di violino e fisarmonica, componeva e suonava nei jazz club torinesi frequentati anche da cesare pavese.
Dagli 8 ai 18 anni, il corso di “educazione del movimento” tenuto da Ada Franellich, secondo il metodo Rosalia Chladek, psicopedagogista della danza al conservatorio di Vienna, in cui si studiava, fra l’altro, ginnastica e danza moderna, danze folk, ritmica, improvvisazione, yoga. Giovanissima, poi, la frequentazione in conservatorio. In quegli anni usciva, per la Fabbri Editore, una storia della musica a dispense venduta nelle edicole settimanalmente, e che naturalmente entrò nella nostra casa. Fui folgorata dall’ascolto delle antiche cantate di Emilio De Cavaliere, e a quel recitar cantando promisi che avrei scritto canzoni.
Ma fu soprattutto l’educazione artistica fondamento della vita in famiglia. Sempre il mio impegnativo papà (che era stato anche pittore), seguendo la tradizione di quasi tutti gli alti dirigenti dell’allora illuminata banca commerciale, offriva attività di mecenatismo a favore di giovani artisti: Epifanio Pozzato, quasi un famigliare per noi, e Agostino Bonalumi, fratello della sua segretaria Amelia.
Suggestione artistica fondamentale per me fu, a 10 anni, la visita alla mostra, a Palazzo Reale, nel ’54, dell’emergente Pablo Picasso. È ancora viva l’emozione davanti alla “Guernica”, con i commenti del mio paterno accompagnatore! Ricordo intenso anche per il periodo blu…
mio fratello Luigi ha poi scelto una strada proprio nel campo dell’arte: pittura, arredamento, antiquariato. Anche l’incontro con la letteratura e la poesia ha avuto solide basi: si leggeva molto in casa, anche noi bambini, a volte costretti… la consuetudine con la scrittrice Lalla Romano, amica di famiglia, insegnante di lettere alla scuola media che io frequentavo, quella del Berchet, mi ha avvicinata al linguaggio poetico, stimolata anche dalla lettura de “La fiera letteraria”, settimanale in uscita la domenica, che Lalla mi faceva pervenire. E poi, a vent’anni, l’incontro fatale con Herbert Pagani, artista totale, legame totale. Un dio, geloso della sua bellezza e dei suoi talenti, troppo presto l’ha voluto accanto a sè. Se mi lascio andare in un non-tempo, la sua voce risuona ancora dentro di me, e mi parla e mi canta dalla dimensione d’origine delle sue infinite visioni poetiche». Anna Jencek