Il mondo antico delle piratesse, quelle vere, quelle come la storica Anne Bonny anche immortalata dentro pellicole famose. La storia di donne leggendarie e delle loro gesta che si innestano dentro un suono epico, inglese anzi irlandese, dentro un rock duro che sa anche mescolare a te del sano pop apolide del nuovo tempo digitale. Tutto a firma del producer e polistrumentista Giovanni Pollastri e dalla cantante americana Annie Saltzman Pini. Sono gli Out of the Blue e noi navighiamo a vista dentro questa release digitale (solo per ora) dal titolo didascalico “Pirate Queens”.
L’estetica di un suono antico e moderno allo stesso tempo. Ecco da dove voglio partire: antico e moderno. Secondo voi è antico o moderno il suono?
Giovanni: credo che da un punto di vista stilistico forse siamo in una sorta di limbo che da un lato rappresenta un passato a volte anche molto lontano, ma da un altro si immerge in un presente comunque fortemente legato a quel passato. Ho voluto contestualizzare in parte il sound in relazione alla storia, e quindi alla piratessa, partendo da una pura “collocazione” geografica. In “Anne Bonny”, primo singolo estratto dall’album, l’ascoltatore viene trasportato sulla barca, e praticamente parte in viaggio con noi; viene circondato da un suono che rievoca non solo l’Irlanda, terra natia della nostra Pirate Queen, grazie alle atmosfere celtiche che caratterizzano il brano, ma anche da una ritmica che richiama il movimento ondeggiante del vascello, oltre a cori quasi pirateschi che enfatizzano l’atmosfera. Il salto dall’antico al moderno tocca inoltre il soggetto vero e proprio di tutto l’album, avendo a che fare con donne che hanno cercato una uguaglianza di ruoli, decisamente molto difficile, se consideriamo oltretutto che alle donne non veniva data la possibilità di salire sulle navi dei pirati. Un argomento particolarmente delicato che ancora oggi fa discutere molto.
Annie: il nostro disco si basa su fatti avvenuti dal 1600 al 1800, quindi inevitabilmente ci sono sia sonorità che parole antiche e moderne. È una sorta di incontro di tutte e due le tematiche. Abbiamo riportato in vita le sonorità e le atmosfere dei quei tempi con i ritmi odierni. Con le parole ho utilizzato una terminologia sia del passato che del presente.
E dal passato, al di la dei contenuti, cosa avete pescato e riportato alla luce? Forme, suoni, strumenti di qualche tradizione?
Giovanni: ho utilizzato numerosi strumenti per la realizzazione di tutti i brani. A parte un paio di brani dove il violino ha una particolare importanza, ho praticamente suonato e registrato tutto io, a partire dalla chitarra per poi passare al basso, alle percussioni, al piano, all’ukulele, al mandolino, ai legni e agli arrangiamenti di archi. Ho anche inserito molti suoni della natura, tra cui l’acqua, la pioggia e i tuoni, il richiamo di alcuni animali, così come il suono di spade, boccali di rum, risate e ulteriori accorgimenti sonori per creare una vera e propria atmosfera visiva. Ritengo comunque che uno degli strumenti più importanti sia proprio il nostro pubblico, l’ascoltatore a cui noi teniamo molto. Cerchiamo di immedesimarci in coloro che ascoltano la nostra musica, ed è per questo che quando suono e quando registro ‘utilizzo’ la sensibilità acustica del pubblico, per me lo strumento più ‘antico’ ma anche il più importante e moderno al tempo stesso.
Il moniker di questo progetto ci incuriosisce: cosa c’è oltre il blue?
Annie: Out of the blue ha vari significati in questo caso. Principalmente perché l’idea è praticamente arrivata all’improvviso, dal nulla. Prima è spuntata nella testa di Giovanni, poi l’ha trasferita a me. A parte questo, il colore blu è associabile all’oceano, al mare, ma anche alla parola “blues”, quella sensazione di profondo malessere, tristezza, un po’ come quel sentimento che tormentava le nostre piratesse prima di decidere di andare per mare. In un certo senso rappresenta la libertà. All’inizio di “Anne Bonny” si sente un coro di bambini che cantano “Out of the blue, came something new”: in effetti questo è un progetto che è decisamente originale, nuovo e avventuroso.
Che poi penso al blues… all’anima, alla dannazione dell’uomo… mi piace leggerci molto di questo nel nome che vi portate dietro. Si va oltre l’uomo per capire la nostra storia… cosa ne pensate?
Giovanni: capire la nostra storia è fondamentale. È importante capire gli sbagli, o i successi, così come rileggere i ruoli di figure che, in un modo o nell’altro, hanno lasciato un marchio indelebile nella storia, e specificatamente nel nostro caso, nella storia della pirateria. Il nostro è un tentativo di portare a conoscenza la sofferenza, quindi quel “blues”, di chi ha cercato e ottenuto l’uguaglianza di cui parlavo prima. È un soggetto “sorprendente”, nel senso che ogni volta che ne parliamo con qualcuno, spesso rimane ‘sorpreso’ appunto da un ruolo di cui non ne aveva mai sentito parlare. Le pirate queens, modo in cui venivano denominate le donne pirata, sono un soggetto tanto affascinante quanto dannato, un ruolo difficile da vivere, essendo totalmente rifiutato dalla società. Ma l’epilogo, nella maggior parte dei casi, è vincente, e la conquista del proprio spazio è arrivata per molte di loro.
E ovviamente un rimando alla copertina: un quadro. Di cosa parliamo?
Giovanni: la copertina è stata dipinta su commissione. Una mia cara amica, Lydia Di Corato, è un’ottima pittrice e quando le ho parlato del disco ho pensato di chiederle di sviluppare un’idea che potesse rappresentare la nostra musica e il concetto dell’album, le piratesse appunto.
In poco tempo ci ha proposto una bellissima polena, quelle figure ornamentali posizionate sulla punta della nave dei pirati, a cui ha dato un volto che ricorda molto da vicino Annie Saltzman Pini.
Ci è piaciuto veramente molto, grazie ai colori, allo stile e all’idea stessa, ossia una figura femminile che si trova proprio a capo di una nave, che guarda avanti senza timore, un po’ come le piratesse di cui abbiamo parlato nei vari brani del disco.