Un secondo progetto per Isabella Privitera in arte iZA che con i suoi The Visions sa bene mescolare il tempo, lo spazio e gli stili. Tracce arabe dentro colori che sanno di trap e di jazz. Un suono decisamente apolide questo racchiuso in “Vol. II”, scritture prive di confini, dense di contaminazione e mescolanze che ci sembrano disperdere un poco la forza e la personalità di una giovanissima nuova penna ormai di stanza a Barcellona.
“Che sia bella da ascoltare”: un target che oggi risponde molto alle richieste dell’estetica di copertina. Dunque una musica che sia per il bello?
Con musica “che sia bella da ascoltare” intendo un tipo di musica il cui obiettivo è, banalmente, piacere alle orecchie sia di chi la fa che di chi l’ascolta, senza chiedersi che genere di musica si stia facendo e a quale scopo commerciale. In questo caso l’abbiamo deciso noi artisti che cos’è il “bello”, e abbiamo esplorato vari generi, più o meno intellettuali, senza preoccuparci troppo di sconfinare in mondi normalmente non comunicanti: il mondo del jazz, della trap, dell’ r’n’b…È una celebrazione gioiosa del fare in libertà ciò che ci più ci piace, cioè suonare, senza sacrificare la ricerca di qualità e di spessore musicale che abbiamo imparato studiando jazz.
E tu personalmente che rapporto hai con il bello? Nel senso estetico ma anche spirituale…
Il mio rapporto con ciò che è “bello” è in costante cambiamento e non ha a che vedere con lo sguardo da copertina. Trovo bello ciò che fa bene, che arricchisce spiritualmente e che dà gioia. Trovo bella un’idea, quando anima e beneficia le persone, e così trovo bella la musica quando ti comunica qualcosa e, banalmente, ti piace. Io sono laureata in antropologia, e da questa laurea ho imparato a mettere in discussione costante parole come “bello” e “brutto”, che possono avere sempre diversi significati.
Questo secondo volume sfoggia anche moltissima quiete irrisolta di scenari metropolitani losangelini quando ricorre all’inglese. Si arpiona molto allo scenario pop-rap italiano quando torni alle nostre origini. Ha senso per te questa mia sensazione?
Non so bene cosa intendi per quiete irrisolta, ma è un’immagine molto bella. A me comunica uno stato di immobilità che non dà risposte, ma lascia spazio al dubbio, alla tensione. Questo concetto è molto bello quando tradotto in musica, quando in un brano calmo e sereno appaiono dei dettagli che stridono, ma danno personalità al brano. La nostra musica sicuramente dialoga costantemente con la musica in lingua inglese, tanto strumentale quanto no, e di diversi generi. Mi ritrovo molto nella tensione verso scenari metropolitani, anche se direi più europei che statunitensi. L’italiano invece è una lingua con un vocabolario molto ricco, che permette di fare lunghi discorsi, di spiegarsi bene, di giocare con le parole. Da qui credo la bellezza del rap/pop nostrano, a cui ci siamo avvicinati.
Perché dunque due lingue diverse? Due fronti, due maschere, due modi diversi di pensare alla musica?
Ogni lingua ha una sua forma geometrica, un suo colore, una sua intonazione e richiama alcune immagini piuttosto che altre. Ci sono alcune sonorità, come quella di Skit, in cui scrivere in italiano mi sembra una forzatura. E’ una cosa che accade nel processo creativo, spontaneamente: a volte l’inglese funziona meglio, altre l’italiano. Io poi ho vissuto in Australia, in Francia, in Argentina, in Costa Rica, in Spagna, e il mio italiano è spesso contaminato da vocaboli altri che riescono a spiegare meglio certe sensazioni o situazioni.
Il disco si chiude con uno strumentale come “On a sunny day”… anche qui torna Los Angeles… una prima take improvvisata in studio? Anche il finale oppure li c’è lo zampino del montaggio?
Nessun montaggio! È stato un momento magico. Avevamo appena finito di registrare “Skit” e l’atmosfera in studio era davvero incantata, così i ragazzi hanno continuato a suonare, ed è nata “On a sunny day”. Questo è l’incanto di quando c’è un ascolto attivo tra musicisti e soprattutto una grande complicità e amore per quello che si fa.